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Recensioni recenti di Eldarion

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5.1 ore in totale
Rooke: Conway, this is Melanie Rooke. Selena Delgado worked for me. Do you have time to talk?
Conway: How do you know my name?
Rooke: It's on your profile, it's your phone's public ID, and you once gave it to me on a business card while saying "My name is Conway."
Conway: I see I've underestimated you.

Gunpoint è stile da vendere. Gunpoint è umorismo esilarante. Gunpoint è arguto. Ma soprattutto, Gunpoint è un gameplay semplice ma azzeccatissimo.

Nel corso delle circa 4-5 ore di gioco, interpreteremo Richard Conway, "spia freelance, appassionato di cappelli, idiota a mano armata", protagonista di una spy story corporativa in classico stile noir, ricca di un impeccabile humor e tanto divertimento. Il giocatore dovrà farsi strada all'interno di vari tipi di edifici, sempre con l'obiettivo finale di recuperare dati da un computer o oggetti particolari, e sarà assolutamente libero di agire come vorrà.

Sì, perché Conway, da vera spia che si rispetti (per quanto sia decisamente maldestro), disporrà di una serie di gadget tecnologici, alcuni già posseduti all'inizio dell'avventura (come i pantaloni modello "Bullfrog" che gli permettono di compiere salti poderosi), altri che invece dovranno essere acquistati o trovati nel corso del gioco. Ma il gadget senza dubbio più importante è quello, probabilmente, più divertente da usare: il Crosslink, un dispositivo che permette di riprogrammare a piacimento ogni genere di circuito elettrico presente nelle vicinanze, in modo tale da poterlo riutilizzare come meglio si ritiene necessario.

Ed è qui che entra in gioco il genio del creatore Tom Francis: quello che dai filmati promozionali può sembrare un concept un po' astruso si dimostra presto, nella realtà, assolutamente intuitivo, funzionale e coinvolgente: un qualsiasi tipo di circuito elettrico (un ascensore, una luce, una telecamera, ecc...) può essere collegato ad un altro circuito qualsiasi che fa da "input", come un interruttore o un sensore di movimento. Una volta effettuato il collegamento utilizzando la modalità crosslink, basterà attivare il dispositivo di input per attivare il circuito collegato (per esempio, si può collegare un interruttore della luce ad una porta chiusa per poi aprirla azionando l'interruttore).

È inoltre possibile effettuare diverse altre azioni, sbloccabili tramite gadget a mano a mano che si prosegue nel gioco, tutte tese ad aumentare il ventaglio di possibilità offerte al giocatore: sfondare porte, riprogrammare perfino le armi dei nemici, e via di questo passo. Ciò che ne consegue è un gameplay che permette di affrontare il gioco come meglio si crede: non esiste un modo ben definito per terminare un livello, ma tutto sta nella creatività e nella furbizia del giocatore, il quale potrà scegliere come meglio superare le guardie e i vari sistemi di sicurezza, sfruttando adeguatamente i gadget, il crosslink e le capacità atletiche di Conway. Per tale motivo, il livello di sfida non si assesta mai su livelli troppo elevati, ma ciò non toglie assolutamente nulla ai meriti di Gunpoint, che si configura subito come un vero e proprio tripudio di gameplay stealth non lineare.

Aggiungiamo a questo una pixel art raffinata e ricca di dettagli, e una spettacolare colonna sonora dalle marcate sonorità jazz che si rifà gloriosamente alle vecchie pellicole di spie.

In definitiva, Gunpoint è un titolo breve ma intenso, che non mancherà di coinvolgere grazie alla sua originalità, al suo carisma e al suo gameplay intelligente. Consigliatissimo.
Pubblicata in data 5 luglio 2015.
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23.9 ore in totale
Se cercate uno stealth game con tutti i crismi, realizzato con ogni cura possibile verso tutti gli aspetti tipici del genere, allora avete trovato il gioco che fa per voi.

Mark of the Ninja è uno titolo dalla struttura stealth bidimensionale sviluppato da Klei Entertainment, e si contraddistingue fin da subito per la profondità delle sue meccaniche, solo apparentemente semplici e dirette, nonché per uno stile visivo molto caratteristico, che richiama da vicino le opere del mai troppo lodato cartoonist Genndy Tartakovsky. Il giocatore, che impersona un innominato membro di un clan di ninja moderni, deve attraversare 12 livelli ricchi di sfide e mai uguali fra loro. La trama si configura come gradevole ma nulla di più, ma è l'ottimo ritmo di gioco uno dei veri punti forti del titolo: fin dall'inizio al giocatore vengono offerti numerosi strumenti e poteri particolari con i quali poter affrontare i nemici e superare le situazioni proposte; si viene spinti ad esplorare attentamente i livelli, che si presentano immediatamente non lineari e caratterizzati da numerosi passaggi segreti e diverse vie d'accesso sviluppate anche in verticale, e a sbarazzarsi dei nemici cercando di non far scattare nessun allarme, sfruttando appieno il proprio arsenale di gadget oppure utilizzando le classiche uccisioni silenziose.

Testimonianza della grande varietà offerta dal gameplay è il sistema di punteggi, che assegna punti aggiuntivi nel caso in cui, per esempio, non venga uccisa alcuna guardia (facendo quindi quella che in gergo viene chiamata una "pacifist run", un tipo di approccio al gioco da sempre molto apprezzato dagli amanti del genere), oppure utilizzando abilità e uccisioni particolari, oppure ancora nascondendo i corpi nei cassonetti dell'immondizia, e così via. Tali punteggi, se particolarmente elevati, contribuiscono (assieme ai collezionabili e alle mini-sfide proposte da ogni livello) a sbloccare i cosiddetti "punti onore", mediante i quali è possibile acquistare ulteriori abilità o potenziamenti per gli strumenti di morte utilizzabili.

Quello di Mark of the Ninja è quindi un sistema di gioco semplice ma sempre vario e coinvolgente, che i ragazzi di Klei Entertainment hanno saputo adattare magistralmente ad un contesto bidimensionale. Sono presenti alcuni piccoli problemi con il sistema di controllo, che può dimostrarsi a volte un po' impreciso, ma tale difetto non toglie nulla ad una esperienza complessiva che rimane sempre elegante, godibilissima e mai banale.
Pubblicata in data 3 luglio 2015. Ultima modifica in data 3 luglio 2015.
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8.9 ore in totale
Crysis è un titolo della casa tedesca Crytek, uscito nel 2007. Questo gruppo di talentuosi sviluppatori si era già fatto conoscere con l’ottimo Far Cry, pubblicato nel 2004 sotto etichetta Ubisoft, e tra i due titoli intercorre un dialogo fatto di numerosissime somiglianze, tendenti quasi alla riproposizione pedissequa della stessa formula: abbiamo un’isola tropicale, un’enfasi posta sulla libertà d’azione all’interno di un vasto ambiente caratterizzato da una morfologia del territorio eterogenea, una storia divisa in due spezzoni ben definiti (open world e con nemici umani il primo spezzone, lineare con nemici alieni o mutanti il secondo), un aspetto audiovisivo assolutamente eccezionale.

Proprio quest’ultimo aspetto di Crysis, vale a dire l’incredibile parte grafica, canalizzò completamente, all’epoca, l’attenzione sia della stampa che dei giocatori. La grande pesantezza sul piano hardware del titolo, così avanti tecnicamente rispetto alla potenza computazionale di quei tempi, divenne una sorta di tormentone presso i giocatori, tanto che si era soliti domandare (scherzosamente o meno) se un nuovo PC o se un nuovo componente hardware di spessore fosse in grado di far girare Crysis. Spesso la potenza grafica del titolo arrivò ad eclissare, nell’opinione comune, la bontà del suo gameplay: Crysis era comunemente ritenuto nulla di più di un glorificato benchmark per nuove macchine da gioco, soprassedendo spesso e volentieri sulla giocabilità vera e propria.

E ciò fu davvero un grosso errore, perché rigiocare Crysis oggi, a distanza ormai di anni, vuol dire non solo godersi una grafica ancora al passo con i tempi, al netto di alcune texture e tecniche grafiche ormai obsolete, ma anche, sgombrata la mente da ogni inutile isterismo, accorgersi di un gameplay dall’ottimo livello qualitativo, che ben pochi sparatutto sono stati in grado di offrire. Crysis è un gioiellino ingiustamente sottovalutato.

La parte narrativa, come spesso avviene in questo genere di gioco, è poco più di un pretesto. Basterà comunque dire che sebbene la trama sia assai raffazzonata e per nulla originale, riesce comunque a coinvolgere il giocatore grazie ad un buon impatto scenografico e ad una regia più che discreta, in particolare negli epici livelli finali. Crysis include, inoltre, un livello interamente a gravità zero (con le inevitabili conseguenze sugli spostamenti del personaggio principale) situato dentro la nave aliena, che rappresenta senza dubbio uno dei punti forti del gioco per atmosfera e design.

Come già detto, il gioco si può dividere in due parti, delle quali la prima, di stampo chiaramente open world, vede come nemici i soldati coreani, e la seconda, più lineare, gli alieni. Tale prima metà di gioco rappresenta il vero fulcro dell’esperienza Crysis: al giocatore viene concessa una quasi totale libertà d’approccio alle varie situazioni, coadiuvato e assistito dalle varie opzioni selezionabili della tuta; è infatti mediante un comodo selettore a ruota, richiamabile col pulsante centrale del mouse, che si possono selezionare quattro differenti modalità della propria nanotuta, insieme ad un menù aggiuntivo dedicato alla personalizzazione delle armi possedute. Le modalità sono sfruttabili in un’ampia varietà di situazioni: la velocità rende il protagonista più veloce, praticamente un fulmine quando si attiva lo sprinting con il tasto Maiusc; la forza lo rende una macchina da guerra, capace di distruggere i muri con un colpo e di saltare molto più in alto del normale; la corazza, la modalità di default, lo rende molto più resistente ai danni; e infine l’occultamento lo renderà invisibile per un breve lasso di tempo. Il tutto, naturalmente, non è utilizzabile all’infinito, ma viene regolato tramite una barra che rappresenta l’energia disponibile nella tuta, che si consuma all’attivarsi delle abilità e si ricarica col passare del tempo.

Come si può immediatamente capire, tale versatilità data al giocatore dà luogo ad un’esperienza che è tra le più adattabili e coinvolgenti mai offerte in uno sparatutto. La tuta può cambiare modalità in maniera pressoché istantanea, permettendo variazioni “al volo” delle proprie strategie, adattandole di volta in volta alle situazioni che si presentano di fronte. Sarà perfettamente possibile, per esempio, avvicinarsi ad un accampamento a bordo di una jeep (il gioco prevede la possibilità di guidare svariati veicoli, ed è inoltre dotato di un ottimo motore fisico), crearsi un’altra entrata sfondando a pugni una recinzione grazie al potenziamento forza della nanotuta, saltare sopra una baracca per ottenere il vantaggio della posizione, attivare il potenziamento corazza e decimare i ranghi nemici. Come sarà pure altrettanto possibile evitare del tutto il combattimento, attraversando una fitta giungla per poi infiltrarsi in una base alla ricerca di documenti segreti ed uscirne fuori senza attivare nemmeno un allarme grazie all’occultamento.

Le possibilità offerte al giocatore sono davvero vaste ed esaltanti, e ciò rende senza dubbio la prima parte del gioco un vero capolavoro di design adattivo, complici le vaste dimensioni dell’isola e la possibilità di avvicinarsi ad un qualsiasi obiettivo da punti diversi, per esempio non solo dall’entrata principale, ma anche dal mare o dalla giungla. Purtroppo nella seconda parte, a partire cioè dall’entrata in campo degli alieni, il gioco diventa più lineare, riducendo così gli approcci possibili con la nanotuta. La minore libertà d’approccio viene in parte compensata da un ritmo della storia più serrato e urgente, che rende gli ultimi scenari discretamente epici e coinvolgenti, grazie anche all’uso sapiente ma non eccessivo delle composizioni di Inon Zur. Nulla di particolarmente memorabile, sia chiaro, ma comunque notevole. Un vero peccato, però, il classico finale aperto che tanto ha piagato quest’ultima generazione videoludica.

Anche il feeling delle armi è di tutto rispetto: i combattimenti sono frenetici e intensi al punto giusto, l’arsenale a disposizione del giocatore è vario a sufficienza, ed è anch’esso completamente dedicato all’ampliamento delle opzioni tattiche offerte al giocatore, grazie alla possibilità di equipaggiare svariati ♥♥♥♥♥♥ (a pompa, di precisione, d’assalto…), lanciarazzi, strumenti di demolizione da remoto, diversi tipi di granate, e così via. Come già detto, è anche presente la possibilità di personalizzare le proprie armi con delle aggiunte particolari che vanno a modificare sensibilmente il proprio stile di gioco: per esempio, è possibile agganciare al ♥♥♥♥♥♥ d’assalto in dotazione un modulo lanciagranate, oppure un silenziatore per chi vuole giocare in maniera più silenziosa. Oppure entrambi, se si vuole disporre della migliore versatilità.

Crysis, insomma, fa della varietà in ogni ambito di gioco il proprio cavallo di battaglia. È una caratteristica assai curiosa, se consideriamo che in genere gli sparatutto non si contraddistinguono certo per questo aspetto. A questo si aggiunge una buona I.A. dei soldati coreani: essi porranno sempre una sfida piuttosto seria per il giocatore, cercheranno di aggirarlo, usare granate e di stanarlo colpendo anche a vuoto nel caso si usi l’occultamento. Crysis, anche qui, si distingue in un ambito che spesso, purtroppo, non viene sufficientemente considerato.

È un vero peccato che i Crytek, sotto il giogo di EA, abbiano sfornato due seguiti assolutamente non all’altezza del proprio predecessore. I due capitoli successivi perdono infatti quello che segna il definitivo successo del primo titolo della serie, vale a dire l’ottimo ritmo di gioco e le possibilità offerte dall’open world. A conti fatti, il primo Crysis rimane ancora oggi una vera e propria perla, capace di offrire un’ineguagliabile varietà (almeno, nella prima metà di gioco) e tantissimo coinvolgimento.
Pubblicata in data 21 maggio 2015.
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15.4 ore in totale
La cosa bella dei prequel è che, generalmente, possono venire usati per esplorare le origini dei personaggi, spiegando i perché degli eventi e come i personaggi sono arrivati al punto in cui sono, sviluppando quei tratti di personalità per i quali sono conosciuti maggiormente. Il nuovo capitolo della famosissima saga dedicata alla più grande archeologa videoludica va proprio in questa direzione: Lara Croft non era mai stata particolarmente caratterizzata, se non come copia al femminile di Indiana Jones, con l’aggiunta di un accento sempre posto particolarmente sui suoi tratti più…femminili, diciamo così.

In quest’ultimo capitolo si affrontano le sue origini, da ragazza 21enne insicura di sè e della sua eredità, nonché un po’ nerd sfigata, a coraggiosa archeologa sbarazzina. Il lavoro svolto sullo sviluppo dei personaggio è tutto sommato buono; davvero ottimo verso l’inizio e in certi momenti significativi dell’avventura. Tuttavia, è necessario usare un bel po’ di sospensione dell’incredulità se guardiamo a come Lara uccida nemici a frotte mentre solo qualche ora prima era una ragazzina spaventata e indifesa. Il ritmo in cui si prosegue dalla prima, traumatica, uccisione per autodifesa al massacro completo degli isolani è a dir poco sconcertante, e solo in parte viene giustificato dalla necessità tipicamente videoludica di offrire al giocatore dei bersagli. A proposito, il gioco si distingue per un accento marcatamente più dark rispetto ai suoi predecessori, con gore abbondante e alcuni momenti che rievocano un qualsiasi survival horror.

L’accento, in tutto il gioco, viene posto sulla necessità di sopravvivere. Una delle prime armi ottenibili da Lara è un arco con il quale può cacciare la selvaggina (cosa che in realtà non ha quasi nessun impatto nel gioco, dato che non esistono timer relativi alla fame, alla sete o al sonno). Circa un terzo delle tre serie di abilità che è possibile ottenere in stile RPG è riconducibile alla caccia e all’esplorazione dell’ambiente circostante, che è quasi sempre pieno zeppo di oggetti da trovare, casse di materiali con i quali migliorare le armi e dozzine di collezionabili che, come sempre in questi casi, servono per esplorare i retroscena dei fatti accaduti nell’isola di Yamatai, dove naufragano Lara e l’equipaggio della nave Endurance.

A proposito degli ambienti, essi rappresentano uno degli aspetti più riusciti del gioco: si alternano spesso corridoi (spesso corrispondenti a particolari segmenti della storia) e ambientazioni più vaste ma sempre ben delimitate, sviluppate soprattutto in verticale. I collezionabili già menzionati si possono trovare un po’ dappertutto, e spesso sarà necessario esplorare molto bene tutte le zone della mappa; inoltre sarà altrettanto necessario dover tornare più tardi in una determinata zona (esiste tra l’altro un sistema di fast travel fra i vari accampamenti) per sbloccare nuove aree, prima irraggiungibili, grazie all’ausilio di nuovi strumenti ottenuti nel frattempo. Le ambientazioni sono piuttosto varie, e si distinguono alcuni scorci particolarmente gradevoli. La grafica è quella tipica di fine generazione, gradevole ma senza particolari tecnicismi, tuttavia va notato che svolge un ottimo lavoro sul piano scenico e sul modello principale di Lara, che, piccolo tocco di classe, si modifica a poco a poco nel corso dell’avventura in maniera scriptata, con tagli, abrasioni e strappi dei vestiti.

Il gameplay pesca a piene mani soprattutto da Uncharted, presentando una struttura mista fra esplorazione e sezioni TPS, il tutto seguendo una regia altamente cinematica (nonché infarcita occasionalmente di immancabili – ma sopportabili – QTE) che tra cadute rocambolesche e una quantità di sfortuna allucinante si diverte con frequenza preoccupante a far soffrire la povera Lara, la quale ne passa davvero di tutti i colori. Purtroppo bisogna notare l’assoluta semplicità dei pochissimi puzzle presenti, limitati generalmente alle tombe e davvero molto basilari. Questo è un elemento tipico dei vecchi Tomb Raider che mi sarebbe davvero piaciuto rivedere. Così com’è, il titolo si caratterizza soprattutto per l’esplorazione degli ambienti alla ricerca di file e reliquie, e in un comparto TPS (ovviamente con coperture) che si dimostra solido ma nulla di più, e non presenta tratti particolarmente originali.

Come succede molto spesso nelle varie contaminazioni fra i generi che hanno caratterizzato la generazione appena passata, anche il lato RPG e il crafting non sono realizzati con particolare spessore: non presentano scelte particolari da fare e non costringono il giocatore ad adottare un determinato stile di gioco piuttosto che un altro, anzi, nel corso del gioco sarà perfettamente possibile sviluppare con facilità tutti gli alberi e ottenere tutti i potenziamenti.

La longevità si assesta sulla 15ina di ore abbondanti se si decide di collezionare tutti gli oggetti e affrontare tutte le sfide secondarie. Nonostante i difetti, figli di una spettacolarizzazione spesso davvero eccessiva, c’è comunque tutto il potenziale per la rinascita di una delle serie di videogiochi più iconiche di sempre, che ha ancora davvero tanto da offrire. Vedremo come se la caverà Rise of the Tomb Raider, il nuovo capitolo annunciato per il 2015.
Pubblicata in data 2 marzo 2015.
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3.1 ore in totale
Necessaria e importantissima premessa: questo gioco tratta tematiche molto crude e e assolutamente reali, poiché si tratta essenzialmente della storia di un uomo distrutto dalla depressione che decide di arrendersi e di farla finita. No, non è uno spoiler, in quanto lo stesso autore, in un accorato messaggio iniziale rivolto ai giocatori, afferma che “sappiamo già tutti come andrà a finire questa storia”.

Il gioco affronta queste tematiche in maniera realistica e senza veli, potremmo dire quasi con una certa spietatezza, e in quanto tale si tratta di un prodotto assolutamente sconsigliato a chi soffre di problemi simili, è vicino a problemi simili e/o ne ha avuto esperienza, magari con parenti o amici che ne soffrono o ne hanno sofferto, oppure a chi non si trova in quel determinato stato mentale necessario per comprendere e recepire con la dovuta tranquillità e serenità una storia di questo genere.

Parimenti, si tratta di un non-gioco: essenzialmente è una sorta di visual novel leggermente più interattiva della media del genere, realizzata con RPG Maker VX Ace. Il massimo delle azioni che si possono compiere consiste nel muovere il personaggio principale e interagire con l’ambiente mediante un tasto dedicato. Tutto qui. Il grosso del gioco consiste nei testi che si attivano esaminando particolari oggetti o persone, e che servono per delineare la trama e svilupparne le tematiche. Quindi, si tratta di un tipo di gioco sconsigliato a chi, dalle proprie esperienze videoludiche, cerca necessariamente un certo grado di interazione e di gameplay profondo.

La storia di Evan Winter, giovane “twentysomething” di bassissime prospettive, è quella del suo autore, Will O’Neal (che, come si legge dalle interviste da lui rilasciate, a lungo ha combattuto contro i suoi personali problemi di depressione),e al tempo stesso è la storia, in maggiore o minore misura, di ognuno di noi, più o meno nerd, più o meno a nostro agio (o disagio) con quella che tanto spesso viene scherzosamente definita “real life”. Ci sono tante cose che risuonano familiari agli occhi di un qualunque videogiocatore. Evan è un giovane vicino ai 30 anni che per molti versi potrebbe essere un avatar di noi stessi, o quello di un nostro vicino amico: accanito videogiocatore e consumatore di videogiochi, lettore e aspirante scrittore, intelligente e molto perspicace per quanto riguarda il mondo che lo circonda e, perché no, anche avido consumatore di materiale porno. Ma è anche piagato da problemi di salute (è visibilmente sovrappeso, cosa che gli ha causato problemi muscolari alla schiena), la sua carriera lavorativa è bloccata in un lavoro che odia, senza alcuna prospettiva positiva per il futuro, ed è drammaticamente sfortunato in amore. E soprattutto, Evan è malato, incurabilmente depresso.

La scrittura di questo titolo è brutalmente onesta, non si perde in pietosi e commossi fronzoli ma dice le cose come stanno: si vede subito che l’autore del titolo ha dovuto affrontare problemi psicologici molto seri simili a quelli del protagonista, e fa di tutto per analizzarne in maniera profonda i pensieri e i drammi, scavando a fondo nella sua coscienza. Ciò, come già affermato, viene realizzato mediante testi che interrompono spesso e volentieri l’azione di gioco, entrando più a fondo nella psiche di Evan e riportandone pensieri intimi, le varie insane costruzioni mentali tipiche di ognuno di noi, ma che in un malato di depressione acquisiscono una colorazione ben più oscura: Evan si immagina spesso, per esempio, come protagonista di un talk show, intervistato sulle sue scelte di vita da un sornione presentatore che riprende personaggi come David Letterman e simili; oppure ama visualizzarsi come un paziente sottoposto ad una visita da parte di un immaginario psichiatra, tanto desideroso di aiutarlo quanto crudele nella sua valutazione di Evan. E ancora, Evan vede determinati oggetti della sua vita e immagina di scrivere su di essi, realizzando così nella sua mente le sue aspirazioni di scrittore frustrate nella realtà.

Il quadro generale di tutti questi viaggi mentali è impietoso: al giocatore verrà spesso voglia di schiaffeggiare Evan per la sua codardia, per la sua vigliaccheria, per la sua incapacità di esprimersi con le persone e soprattutto per la sua costante autoflagellazione, nata da un’autostima che dopo anni di sogni infranti è arrivata ormai sotto il pavimento. Ma è proprio questo il punto di tutta l’opera: la depressione è una malattia che non lascia scampo, che fa a pezzi la psiche facendo credere che non ci sia più alcun modo per rimediare ai propri errori, non importa quanto poi sia possibile effettivamente correggere tali errori. In uno dei testi più potenti e significativi del gioco, Evan si lamenta delle occasioni perdute in una vita che non ha mai effettivamente vissuto, affermando che “quando arrivi a 30 anni molte porte cominciano a chiudersi in base alle scelte che hai compiuto a 20-25 anni”.

E come già anticipato, la fine non lascia spazio ai buonismi.

Da quest’opera breve, circa un’ora di giocato effettivo, traspare una indomabile volontà di trasmettere un determinato messaggio. L’intenzione di Will O’Neal è quella di comunicare la sua esperienza di vita, attraverso un gioco che gioco non è, un’opera che tocca e interroga, e fa riflettere. Nelle sue parole, che il giocatore può leggere in un messaggio nei primi minuti di gioco, si avverte il desiderio di far capire non solo in cosa consiste effettivamente questa tremenda malattia, ma anche che non importa quanto il futuro possa essere senza speranza: perché esisterà sempre qualcosa per cui vale la pena vivere.
Pubblicata in data 23 febbraio 2015. Ultima modifica in data 26 febbraio 2015.
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42.9 ore in totale (41.6 ore al momento della recensione)
Harebrained Schemes ritorna con un altro titolo dedicato al franchise di Shadowrun. E stavolta convince davvero.

Shadowrun Returns era un titolo interessante ma imperfetto: pur costituendo un’ottima base per future avventure creabili con l’editor, è stato criticato spesso e volentieri, in particolare per quanto riguarda la campagna base, accusata di eccessiva linearità e di mancanza di scelte o conseguenze degne di nota, nonostante fosse caratterizzata da una buona sceneggiatura. Personalmente, ho potuto apprezzare parecchio la campagna base, pur non rimanendone particolarmente colpito proprio a causa dei difetti sopra citati.

E dunque cos’hanno fatto i ragazzi di Harebrained Schemes per reagire a queste critiche? Si sono rimboccati le maniche e hanno sfornato in poco tempo uno dei Gdr story driven più belli degli ultimi anni.

Originariamente Dragonfall è nato ed è stato pubblicato come campagna aggiuntiva di Returns tramite DLC, salvo poi fare il grande salto a titolo indipendente sotto forma di “Director’s Cut”, comprendente un gameplay leggermente rimaneggiato e bilanciato e nuove missioni. E il motivo di tale “indipendenza” risiede nella eccellente qualità di questa campagna, capace di non sfigurare nemmeno davanti alle produzioni tripla A più gettonate, come quelle di Bioware. Dragonfall getta subito il giocatore nel vivo dell’azione, facendogli prendere i panni virtuali di uno shadowrunner (veri e propri mercenari, persone di tutte le razze e background che operano fuori dalla società normale intraprendendo missioni segrete di vario tipo, spesso di natura illegale e spesso al soldo delle grandi corporazioni) durante una missione apparentemente semplice. Ma una regola fondamentale del mondo di Shadowrun è che niente è mai come sembra, e il nostro (o la nostra) protagonista si ritrova presto braccato da un nemico implacabile e costretto ad usare tutti i mezzi a sua disposizione.

Degna di nota è l’ambientazione, in quanto Shadowrun presenta una atipica alchimia fra cyberpunk e fantasy classico: nel mondo del 2050 coesistono megacorporazioni di Gibsoniana memoria, elfi, hacker, troll, cyberpotenziamenti che non sfigurerebbero in un episodio della serie Deus Ex e magie di tutti i tipi. Questa commistione apparentemente così disomogenea è in realtà un grandissimo punto di forza, in quanto risulta in una specie di urban fantasy molto ben bilanciato e caratterizzato in ogni sua componente, che nel gioco di ruolo originale permette una grandissima varietà nelle campagne e nelle tematiche, nonché nella caratterizzazione dei personaggi. Tramite gli stupendi dialoghi con i vari NPC viene continuamente analizzata e approfondita questa affascinante ambientazione: ne risulta così, in Dragonfall, una sorta di action/thriller fantasy tanto particolare nel setting quanto coinvolgente nel suo svolgimento. La campagna base di Returns, purtroppo, non faceva un lavoro di caratterizzazione così eccelso, né tantomeno si dimostrava così avvincente.

I suddetti dialoghi sono impostati in maniera classica mediante un albero di dialogo testuale, ma con una caratteristica in più che li contraddistingue rispetto alla concorrenza: per ovviare alle mancanze grafiche, gli sviluppatori hanno scelto di esprimere le azioni degli NPC durante i dialoghi mediante dei paragrafi di descrizione nei dialoghi stessi, che si occupano si riportare gesti dei personaggi, eventi particolari, descrizioni dell’ambiente, e tante altre cose. Una scelta che si dimostra vincente, grazie alla grande qualità della scrittura. Ah, e anche per questo motivo la quantità di testo presente nel gioco è molto, molto elevata.

In Dragonfall il giocatore dispone di un party formato da altri quattro shadowrunners che lo accompagnano nelle missioni. È possibile equipaggiarli con armi e attrezzature superiori a quelle di cui dispongono e personalizzare in parte le loro abilità; ma va detto che, sorpendentemente, Dragonfall non si focalizza sul party allo stesso modo di un Baldur’s Gate o di un Dragon Age Origins, come si può vedere dal fatto che i personaggi migliorano automaticamente il loro equipaggiamento indipendentemente dalle azioni del giocatore (con i loro risparmi!). Ognuno di loro è perfettamente caratterizzato e definito nelle proprie azioni e nei propri comportamenti, reagirà in maniera coerente alle nostre azioni e decisioni, e non sarà affatto difficile affezionarsi a loro. Inoltre ogni companion ha una missione specifica affrontabile nel corso del gioco, che servirà a delineare meglio il suo passato. Agli NPC del party si aggiungono gli NPC dell’hub principale del gioco, un quartiere di Berlino: i vari ricettatori, informatori e mercanti vari che popolano questo hub hanno tutti una loro storia e personalità, e sono ben lontani dall’essere i soliti, tipici NPC con l’unico compito di rifornire il giocatore di armi e munizioni. Degno di nota il sistema di scelte e conseguenze: la maggior parte delle scelte hanno conseguenze immediate e finiscono lì, ma alcune hanno una importanza maggiore che si ramifica in tutto il corso della campagna, fino a coinvolgere il finale stesso. Sono presenti, a proposito, numerosi finali multipli.

Passando al gameplay, Dragonfall si presenta, allo stesso modo di Returns, come un RPG con visuale isometrica e sistema di combattimento strategico a turni. Il sistema di sviluppo non segue classi predefinite (anche se è possibile scegliere una classe iniziale come “base” di partenza), ed è possibile costruire il proprio personaggio dando libero sfogo alle proprie fantasie, tramite un flessibile sistema di punti karma acquisiti dopo ogni missione e che è possibile spendere per migliorare le varie caratteristiche e abilità. Il combat system, rispetto a Returns, è stato migliorato e bilanciato, in particolare per quanto riguarda il sistema di gestione delle armature, ora reso più chiaro e sensato. In Returns ho spesso provato una sensazione di ripetitività nei combattimenti, che in Dragonfall sparisce proprio grazie a questi miglioramenti, che comprendono, tra le altre cose, anche l’inserimento di nuove magie, armi e abilità varie (anche per i compagni), approfondendo così ancora di più le varie build utilizzabili. Come già detto, Dragonfall è un Gdr story driven, quindi assai lontano da esponenti del genere come Skyrim: la linearità la fa da padrone, il gioco si snoda tramite un sistema di missioni, e non è quindi possibile andare ad esplorare l’intera Berlino; d’altronde non era certo questa l’intenzione degli sviluppatori, che intendevano focalizzarsi su un tipo di esperienza più incentrata sui personaggi e meno dispersiva. Va comunque detto che Dragonfall, rispetto a Returns, si presenta mediamente più vasto, sia negli ambienti che nelle decisioni, e persino nella longevità (che si assesta sulle 20/25 ore rispetto alle 15 della campagna base).

Infine una nota di merito per il comparto audiovisivo: il gioco presenta una grafica isometrica molto pulita, ma priva di fronzoli particolari e assai carente sul piano delle animazioni. Tuttavia ciò è controbilanciato dall’eccellente comparto artistico: basta guardare qualche immagine per rendersi conto del grande lavoro degli artisti di Harebrained Schemes, che seppur pecchi in originalità si dimostra comunque piacevole per gli occhi. La colonna sonora è adatta a sottolineare i vari momenti di gioco, con alcuni pezzi che si distinguono molto piacevolmente.

Shadowrun Dragonfall, in definitiva, costituisce uno dei Gdr classici che più mi hanno coinvolto in questi ultimi tempi, centrando in pieno tutti gli obiettivi che originariamente si proponeva il già decente Returns. Hype assoluto per la già annunciata terza campagna aggiuntiva, sempre degli stessi sviluppatori e ambientata ad Hong Kong.
Pubblicata in data 12 gennaio 2015.
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33.5 ore in totale
Essenzialmente, questo gioco è il sogno di chiunque, ai tempi della PS1, giocava con le VR Missions di Gray Fox nell’espansione del primo Metal Gear Solid e desiderava ardentemente un gioco incentrato solamente sulle gesta del Cyborg Ninja di Kojima.

Revengeance si dedica completamente ad esaltare ninja cibernetici e lame ad alta frequenza tramite un gameplay rapidissimo e un combat system reattivo e spettacolare. La Blade Mode, nella quale la lama è controllata dall’analogico destro in maniera intuitiva e coinvolgente, rappresenta la splendida ciliegina sulla torta.

Consigliatissimo. Soprattutto a chi pensa che non sia un vero Metal Gear.

Nanomachines, son!
Pubblicata in data 6 novembre 2014.
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11.3 ore in totale
Dopo una prima esaltante stagione, i Telltale si riconfermano ancora una volta i maestri del genere "avventura cinematica". Questa seconda stagione, fra molti alti ma anche qualche basso, riesce nei suoi obiettivi, e cioè presentare al giocatore una Clementine da costruire pezzo per pezzo, facendole affrontare nel modo che si sente più "proprio" il crudele mondo di The Walking Dead, una scelta morale dietro l'altra.

Alcuni meccanismi narrativi sono un pò abusati (per esempio, l'eccessiva quantità di scelte "binarie", che spesso sanno di forzato) e i personaggi durano troppo poco per poter costruire una solida caratterizzazione. Ma tutto considerato, la Season 2 rimane pur sempre un ottimo proseguimento.

Hype assoluto per la già confermata Season 3.
Pubblicata in data 28 agosto 2014.
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28.5 ore in totale (12.8 ore al momento della recensione)
Un TPS onesto, dalle meccaniche solide ma non particolarmente originali, fatta eccezione per la gestione vocale della squadra (comunque grezza e poco raffinata).

Come nel caso di Spec Ops The LIne (altro TPS che poggia parecchio sulla trama più che sulle meccaniche) ciò che distingue questo gioco dalla massa è nella trama, che riecheggia gran parte dell'immaginario Cyberpunk moderno e ne costituisce una sorta di grande lettera d'amore. La trama e i personaggi sono perfettamente costruiti, le tematiche sono familiari e coinvolgenti, l'ultima mezz'ora del gioco è un continuo susseguirsi di colpi di scena da cardiopalma. La qualità della campagna, tra momenti d'azione coinvolgenti, ottime boss fight e buona scrittura, fa dimenticare facilmente un gameplay assai tradizionale. Consigliatissimo, soprattutto se si è amanti delle ambientazioni Cyberpunk.
Pubblicata in data 24 agosto 2014.
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24.6 ore in totale
Già famoso per il suo lavoro nel primo Bioshock, con questo sequel Ken Levine stravince tutto a mani basse.

Questo gioco è Bioshock come doveva essere, alla sua massima espressione: la storia è più incisiva e meglio ritmata, con due protagonisti cui è incredibilmente facile affezionarsi. Il gameplay si toglie finalmente di dosso quella macchinosità che lo aveva contraddistinto nel primo capitolo, ed è ora fluido e solido. L'art design è come al solito eccezionale. Tutto, tutto perfetto.

Il finale di questo capolavoro si candida facilmente come uno dei finali più sconvolgenti della storia dei videogiochi.

11/10 would play again.
Pubblicata in data 14 giugno 2014.
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